Giuseppina Balleri Voliani (Livorno 1896 – Rosignano Solvay 1977)

Mia nonna materna Giuseppina, detta Beppina, nacque da Polissena Vannini e Silvio Balleri in una Livorno povera e “scaciata” come la definiva con affetto per sottolinearne gli aspetti di caotica e rumorosa convivenza.

Le sue sorelle e suo fratello furono chiamati: Attilia, Messinella, detta Comunarda, e Alfredo.

Polissena, Attilia, Comunarda, Messinella, nomi nella tradizione anarchica livornese che non si smentisce nei decenni e che imperterrita continua a sbeffeggiare i santi.

Suo padre morì giovane e la madre dovette lavorare al porto, in lavori umilianti, faticosi e poco retribuiti in quanto svolti da una donna.

Beppina, molte volte sola e affamata, si rifugiava dalla maestra elementare che la coccolava e la nutriva. Aveva imparato ben presto come sopravvivere alle disgrazie, ma queste avversità temprarono un carattere da combattente e da indomita ribelle alle ingiustizie della vita.

A ventun anni si innamorò perdutamente del suo Voliano quando lo vide passare in uniforme da cadetto dell’Accademia Navale di Livorno per le strade del quartiere.

Dopo un anno lo sposò e gli dette l’ultimatum “o me o la Marina” tanto che il gentile e buon Voliano abbandonò ogni speranza di solcare i mari per attraversare la vita tranquilla di contabile in uno studio polveroso. Quando Beppina voleva una cosa, la otteneva, e stavolta non desiderava certo che il marito se ne stesse sempre via da casa e magari si facesse una donna in ogni porto!

“I marinai… tutti boni da friggere quelli lì!” ripeteva anche da vecchia.

Quando nel 1928 si trasferì con Voliano a Rosignano Solvay, paese fondato dalla fabbrica chimica belga sulla costa a sud di Livorno, Beppina realizzò finalmente il sogno di avere una casa tutta sua e un suo nido d’amore.

Negli anni precedenti erano nati tre figli ai quali furono dati i consueti e prevedibili nomi anticlericali di Ilva, Venio e Ivano.

Dopo la guerra Voliano iniziò una assidua attività politica nel Partito Socialista e nel Patronato del paese per cui capitava spesso, anzi più spesso di quanto lei in realtà gradisse, che la casa fosse luogo di discussioni politiche infervorate e di accoglienza per chi aveva dei problemi o, semplicemente, volesse un piatto di minestra. Beppina però accoglieva tutti col sorriso perché ben capiva chi avesse poco e lottasse per la sopravvivenza.

Quando Voliano fu stroncato da un infarto, il suo dolore fu immenso ma dignitoso e austero, ruvido come la vela delle barche del porto sul quale era nata. Non si rassegnò mai alla sua perdita, alla mancanza delle passeggiate quotidiane sul lungomare di Rosignano fino a Castiglioncello, alle confidenze serali sullo svolgimento delle giornate, allo stare abbracciati sul divano a guardare la televisione.

Dopo il lutto ricordo che mi inviava spesso lunghe lettere, sapeva quanto avessi amato il nonno e, parlare di lui con me, colmava una parte del vuoto che aveva lasciato. Mi raccontava, con fraseggio quasi infantile ma stupefacente per i soli cinque anni nei quali si era potuta permettere la scuola, tutto ciò che aveva fatto nella giornata. Erano cose semplici, osservate ancora con stupore, comprese quando lo potevano essere, accettate come inevitabili quando non lo potevano. A volte mi scriveva “oggi mi sono comprata le cieche (gli avannotti nel resto d’Italia) e me le gusto con burro e salvia, costano parecchio ma uno sfizio ogni tanto me lo posso permettere, no?”. Allora capivo che tutto andava bene e andò bene finchè un giorno che non sarebbe mai dovuto comparire sulla terra, un ragazzo distratto la investì con la moto mentre attraversava la strada davanti alla merceria del paese e le diede modo di raggiungere il suo amato Voliano per sempre.

Nicoletta Benocci