ItaloTomba (Valdagno 1913 – Biella 1972)

Il riferimento alle tre fotografie, inserite nel testo, è assolutamente indispensabile per riuscire ad afferrare l’aleatorietà da cui dipende una vita, forse ogni vita, e ciò che di essa rimane nel ricordo.

È una foto del 1916. Il bambino che manovra il carrettino lungo la discesa di una via di Valdagno, è mio padre Italo. Era nato nel 1913, lì nelle vicinanze di quella via. Ma la possibilità che ho ora di poter dire “è mio padre” è dipesa dal verificarsi di due circostanze inattese, distanti nel tempo.

La foto non apparteneva all’album di famiglia, ma è entrata a farne parte. È uno scatto fotografico, nato come cartolina postale di un paesaggio urbano della Valdagno di allora. Quando la foto comparve su un giornale locale – era il 1970 – un giornale cui si era abbonato da poco, in qualità di emigrato dalla fine degli anni ‘20 nel biellese, mio padre sottolineò nella descrizione che ne accompagnava la pubblicazione questa frase: «Risaliamo adesso la strada sulla sinistra dove ci sono i ragazzini con il carrettino e il traversòto». Un’immagine a stampa, sgranata. Non ne era certo, ma gli sembrò di potersi riconoscere in quel bambino alla guida del carrettino. «Forse sono io. Il carrettino, solo la nostra famiglia aveva quel giocattolo».

In tempi recenti, una copia digitale della stessa foto, meglio definita di quella a stampa, su una pagina di Facebook, dedicata a Valdagno, mi ha consentito, con un ingrandimento, di mettere a confronto l’immagine del “ragazzino” sul carretto-giocattolo con quella di una foto di famiglia di quello stesso anno, e di avere conferma della testimonianza di mio padre.

La somiglianza della sua “facciotta” in braccio a suo padre con quella del bambino

sul carrettino è evidente, e la foggia del berretto di lana, nella sua maniera di indossarlo, è identica.

Solo ora quel ricordo di mio padre sembra davvero appartenermi. Anzi, senza quella singolare coincidenza di successive “apparizioni” di quella foto, oggi, di quel ricordo, non ce ne sarebbe neppure traccia. Al contrario, l’esistenza di quella foto mi restituisce ancora sempre quel suo giocoso momento di vita infantile, in un tempo già segnato dalla Grande guerra.

Ma da quella foto la storia si prolunga nell’altra. A poco meno di un anno da quello scatto fotografico, l’infezione, allora altamente tossica, della difterite portò mio padre vicino a una crisi fatale. Insieme alla sorella più piccola Nerina – a sinistra nella foto, in braccio a sua mamma – mio padre, contratta l’infezione, si trovò in pericolo di morte. La sorellina se n’era andata il giorno prima. A lui fu impartita l’estrema unzione. Il decorso della malattia non lasciava più speranza. Non avrebbe superato la notte.

Qualcuno dei presenti, pietoso, gli chiese di esprimere un desiderio. «Che cosa vuoi?» – così dal racconto di mio padre – «Io non riuscivo a immaginare altro che due uova al tegamino.

Sentii l’infermiera, una suora, dire: – Poverino, non riuscirà neppure a mandarne giù un boccone. Ma quando ebbi davanti le due uova nel piatto, la fame fu più grande della mia gola ostruita, che le trangugiai, e di gran gusto». Nella notte, mio padre superò la crisi.

Una fatalità scongiurata. Senza quella sua voracità, forse oggi io non sarei qui a poter dire di quel bambino “è mio padre”, e della sua infanzia segnata dalla fame. A questa immagine di sopravvivenza alimentare, si intreccia una terza foto, l’unica altra successiva che documenta quella sua stagione della vita.

È una singolare istantanea fotografica, un insolito ritratto “in interno” della vita quotidiana di una famiglia operaia, riunita in cucina a tavola nell’ora del pranzo – ne fa fede, se ingrandita, sullo sfondo un orologio appeso che segna le ore 12 e 46. E, sempre sullo sfondo, un calendario di Valdagno datato 1924, la Grande guerra, ma forse non la fame, è solo più un ricordo.

Al centro, mia nonna Erminia con i suoi figli e le sue figlie: da sinistra, l’ultima nata, ribattezzata Nerina, Antonio e Attilia. Non c’è mio nonno Mario, all’epoca già emigrato nei territori dell’industria tessile biellese. Il bambino a destra è il ragazzino di prima, quello sul carrettino, ormai sulla soglia dell’adolescenza, che una precoce vita di lavoro farà di lui l’uomo adulto che è stato mio padre. Un uomo bello, che venne a mancare troppo presto. Nel mio ricordo era, ed è ancora sempre, accanto a mia madre.