Ci ho pensato a lungo, stavo per suonare il campanello quando è uscita la Milli, tutta carina. Con la maglietta gialla, i capelli raccolti e il rossetto rosa. Mi si è stretto il cuore, un pochino, non so perché. Lì per lì, non volevo più chiederglielo, era come se in fondo sapessi già che cosa avrebbe detto. Poi invece mi è venuto fuori un respiro, anche troppo forte e ho detto: “Ha telefonato Altin?”. Lei si è tirata subito indietro, come se avesse preso la scossa. Si è appoggiata alla porta. “Su dai” ho detto io, ed era abbastanza curioso che fossi proprio io a tranquillizzare lei. “No” ha detto la Milli. “Non ancora” “Ah, va bene” ho risposto con il tono più stupido che mi è riuscito di trovare. Poi ho detto qualcosa sul rossetto, che dato il mio mestiere era anche plausibile. Poi le ho dato due baci sulle guance e l’ho lasciata andare.

Ho avuto questa sensazione, di averla lasciata andare come si fa con una lepre bionda presa in una tagliola.

E invece dentro la tagliola ci sono io.

Sono arrivata in negozio in ritardo, come succede spesso. Ho fatto tardi con Mario ieri sera, all’Exstasy c’era della bella musica e sono arrivati due tipi molto simpatici da Modena e anche una certa Ago che fa credo l’insegnante di fitness in una palestra dalle mie parti, insomma era una serata divertente, e a me le serate divertenti piacciono da morire, c’è così poco tempo per divertirsi. O forse ce n’è troppo. Da un po’ di tempo mi vengono in testa certi pensieri strani, come una specie di tristezza senza motivo, non so perché. Non ho motivo di essere triste. O forse ce l’ho.

Al negozio c’era la solita festa di gente, ragazze e signore. E anche donne abbastanza anziane, una con le mani a mollo per la manicure, una cliente sotto la lampada, una pronta a farsi depilare con la cera calda: il solito can can. A me il can can piace da morire. È la vita. La vita corre. Io corro con la vita e mi piace moltissimo. Quando sono entrata, tutto il negozio sembrava che esplodesse: baci, abbracci, strilli. Di là, accanto, la Mary tagliava i capelli e rideva con le sue clienti, sì perché comunicante al mio negozio c’è mia cugina con il suo, è parrucchiera. Mi sono affacciata, e tutte, proprio tutte, hanno detto che con la maglietta grigia senza maniche, i pantaloni neri attillati e le scarpe con il tacco a rocchetta stavo da Dio. Dicono che la moda la faccio io, è moda prima che diventi moda, chi lo sa se hanno ragione, io intanto mi diverto. Non che sia difficile, bisogna andare in centro a Bologna per avere più scelta. Io vado in centro spesso, non solo per i vestiti, ci vado perché bisogna stare dove succedono le cose, la vita bisogna andarsela a cercare. Mi sono messa il camice e ho iniziato a lavorare, ho dato un colpetto qui, una aggiustatina là, ho fatto tutti contenti.

Fare tutti contenti è la mia specialità.

Ho chiamato Mauro, Marco, Mario e un terzo di cui non mi ricordavo né il nome né la sua faccia, che mi aveva visto all’Exstasy ieri sera. Ha sentito tutto il negozio e io non ero per nulla imbarazzata, sono single e mi diverto.

Anche se certe volte mi viene in mente che anche mettersi a casa tranquilla con il mio uomo a guardare la televisione o stare con la Milli a spararci un gelato e un po’ di scemate sia la migliore delle serate possibili; per non dire delle vite.

Comunque avrò tempo. Credo.

Amo le gerbere rosa. I fiori mandano onde energetiche, se ti metti vicino ti arrivano e fanno molto, molto, bene. Mi piacerebbe avere un uomo con cui parlare di questo, un uomo che non fosse solo interessato ai miei pantaloni aderenti e a quello che c’è dentro.

Un uomo come Altin.

Siamo arrivati alla stazione e c’era freddo, anche se era marzo; e anche una specie di nebbia. Il treno per il Lussemburgo è arrivato sul binario esatto dove doveva arrivare, in orario perfetto: mi è sembrato di buon augurio. Non so se avrei sopportato mezz’ora di ritardo, come aveva avuto il giorno prima, quando eravamo venuti a fare le prove. Il cuore me lo sentivo in gola più il giorno prima, è strano. Quando sei dentro una cosa, ti viene una forza speciale, non credevi di avercela e invece ce l’hai. Comunque, far espatriare una persona in modo illegale non è esattamente una cosa facile; non è una cosa che non dia pensieri.

Altin è albanese. Albanese e senza permesso. E aveva sbagliato destinazione. O forse no, forse era giusta la sua destinazione; era giusta perché ha trovato me. Forse sono io l’indirizzo di Altin; è lui che non lo sa.

Invece, voleva per forza andare in Lussemburgo, perché lì c’è suo zio, che si chiama Duvan, che di certo riusciva a dargli un buon lavoro, diceva Altin; e anche sua sorella Senia. Se non fosse Altin, io di questi nomi così strani mi metterei a ridere; non sono razzista io. Io sono innamorata. Altin mi punge il cuore come un pugnale, sta lì e fa male. Non si può estrarre nulla, e per questo la ferita non si chiude. Altin non c’è, non si fa vivo, non telefona, Altin è partito, è andato via. E anche: Altin è con me, dentro di me, Altin è un’ossessione fissa dentro la mia testa, e bocca che fa male e denti che stridono di notte senza che io li possa controllare e disturbano gli uomini che dormono con me, i miei fidanzati che cambio ogni anno o ogni due; cambiano perché non sono Altin.

Avevamo pensato a tutto: l’idea era la botola che c’è nella toilette di tutti i treni. Una botola chiusa da una griglia, così anche se stai rintanato nel buco che c’è sotto, puoi respirare. Però bisogna essere elastici, potersi piegare come un foglio di carta: se Altin non avesse fatto Yoga, non avesse fatto l’istruttore di fitness alle signorotte della parrocchia del mio paese, non ci sarebbe mai entrato in quella botola. Infatti quando l’abbiamo vista, per la prima volta, ci siamo sentiti chiudere lo stomaco, tutti e due, sono sicura, anche se poi, tutti e due, abbiamo fatto finta di nulla, perché nessuno dei due voleva far impressionare l’altro. Succede così quando si è innamorati. E io ero innamorata, troppo innamorata. Per far espatriare Altin, mi ero presa due giorni di libertà dal negozio di estetista, tanto c’è Carlotta che è abbastanza brava anche lei, e poi era lunedì e martedì, e quest’ultimo non è mai un giorno di gran pienone. Mi rivedo come se fosse adesso, come se non fossero passati quasi 5 anni: Altin chino sopra la botola, la sua bella schiena curva, la testa con i capelli chiari allungata a guardare il buio; e io appesa al suo braccio, come se stessi per annegare.

Si è calato giù velocemente, come se non volesse pensare a quello che stava facendo, come se non se ne volesse accorgere; è scivolato come un peso morto. Io ho richiuso la botola e l’ho fermata con il cacciavite che avevo preso la sera prima dal cassetto degli attrezzi di mio padre, tanto non se ne sarebbe accorto.

Mi batteva il cuore e comunque volevo fare la persona forte. Non ho detto nulla e sono uscita, chiudendomi dietro la porta della toilette. Poi sono andata a sedermi al mio posto, numero 10, carrozza 17.

Davanti a me era seduta una signora anziana, teneva le grosse mani piene di vene blu attaccate alla borsa, che aveva messo sulle ginocchia come se fosse stata un bambino. Mi ha guardato tutto il tempo e io ero tormentata da pensieri senza senso, pensieri come: adesso lei se ne accorge, adesso Altin soffoca, adesso lo scoprono, adesso mi arrestano. Paura pura. Alla stazione di Bordighera, la signora è scesa insieme alla sua borsa e io sono andata in bagno. Morivo, letteralmente morivo, dalla voglia di vedere Altin. Di vedere che era vivo, che respirava, che c’era. Sono entrata nel bagno e ho battuto sulla botola il segnale che avevamo stabilito: tre colpi forti e due brevi. Lui ha battuto con le nocche della mano sul ferro. Io ho svitato le viti del coperchio e ho infilato il braccio nel buio. Ho sentito il suo viso. Era freddo, terribilmente freddo. Altin non sembrava vivo, proprio no. Ho avuto una specie di blocco del cuore, anche gli occhi hanno visto solo buio. Ho esalato un respiro, un sospiro pianissimo, come se mi avessero appena ucciso. La testa di Altin sotto le mie dita, si è mossa di un mezzo giro, ho sentito la linea diritta del naso, la bocca spaccata dal freddo e dall’angoscia. “Tirami” ha detto lui. Non si riusciva a muovere, era stato piegato in modo non naturale per troppo tempo.

Non è stato facile tirarlo fuori, è alto un metro e novantatrè e pesa molti chili, più di ottantacinque, credo: e non aveva forze, stava incastrato dentro la botola come un dente nella gengiva. Io tiravo verso l’alto, lui spingeva e alla fine ce l’abbiamo fatta. È uscito dalla botola e puzzava di tutto, era congelato, aveva gli occhi rossi e le mani umide; io l’ho abbracciato forte, con le mani frizionavo la sua schiena, la sua pelle, cercavo di scaldarlo e allo stesso tempo trattenerlo a me. Mi ha preso il viso con le mani nere di sudiciume e mi ha baciato. Baci e baci e baci, una pioggia di baci che mi lavava il viso e io non capivo nulla e mi stringevo contro il suo vecchio maglione pieno di tutti gli odori orribili di quel minuscolo bagno e non sentivo nulla, non capivo nulla; solo la sua bocca, i suoi denti, le labbra che non erano spaccate, e il suo respiro contro il mio collo bianco. Lo amo troppo, lo amo troppo, mi sono detta. E più lui mi baciava, più quel troppo amore mi sembrava insostenibile e anche indispensabile, necessario, aria da respirare, aria da vivere.

Poi è dovuto rientrare dentro la botola. Dovevamo arrivare alla frontiera e c’era poco tempo da perdere. Ma ora io lo capisco, perché nei film di guerra, mentre i nemici sparano e buttano le bombe, due persone si possono baciare e dimenticare di smettere.

Sono rientrata nel mio scompartimento e avevo le labbra talmente secche che mi sembrava di non riuscire neanche a parlare. Poi invece ho detto “Buongiorno” ai due ragazzi che stavano seduti davanti al posto numero 10, e mangiavano dei biscotti di cioccolata ridacchiando. Ho avuto ancora paura. Però mi sono seduta lo stesso e ho cominciato a cercare la Fanta che avevo messo dentro lo zaino. L’ho trovava e l’ho aperta e ho cominciato a bere. Poi mi è venuto in mente Altin, chiuso lì sotto nel freddo, in mezzo a quegli odori orrendi con le labbra spaccate, e ho pensato che dovevo, dovevo, assolutamente portagli la Fanta. Mi sono alzata con la lattina in mano e cercavo di darmi un’aria normale, come di una che normalmente va nel corridoio a bersi la sua Fanta. I due ragazzi mi hanno guardato strano. Io ho rovesciato un po’ della Fanta sul pavimento, mentre cercavo di aprire la porta scorrevole. Nel corridoio camminavo come sui vetri. E mentre stavo ad arrivare alla porta del vagone 18, dove c’era la toilette dove stava nascosto Altin, il treno ha dato una gran frenata, e si è fermato. Io non sono caduta perché ho fatto in tempo a reggermi, ma Altin, Altin. Altin come aveva fatto? Il pensiero di Altin coperto di sangue, con la testa spaccata dentro la botola, Altin agonizzante e solo il pensiero mi ha schiantato. Ho cominciato a correre e ho sbattuto contro la porta di interconnessione delle vetture che era chiusa. Provavo ad aprirla e mi veniva da urlare. La porta è rimasta chiusa. Ho tirato, spinto, pigiato: nulla. Un uomo piuttosto alto, che stava nel corridoio davanti alla porta mi ha aiutato ad aprirla: ma non c’è riuscito nemmeno lui. Mi sentivo come se mi avessero strappato il cuore e l’avessero appeso dall’altra parte del treno.

Siamo rimasti fermi mezz’ora e io non potevo fare nulla per Altin e neanche far veder che ero in quello stato.

Mi sono rimessa a sedere e avrei dovuto pregare, se avessi saputo pregare. Ho aspettato. E ho pregato. Poi il treno è ripartito. Mi sono precipitata alla fine del vagone, ho spinto i due battenti del corridoio di connessione: si sono aperti.

Nel bagno Altin non mi ha risposto subito. Io ho provato una sensazione di evanescenza e di stupore; come se fossi chissà dove, in cielo, in un limbo separata da tutti e dalla vita. MORTA. Poi ho sentito un mugolio, ed era Altin che aveva sbattuto la testa, ma non si era fatto tanto male. E infatti , quando l’ho tirato fuori di nuovo dalla botola, ha cominciato a baciarmi. E io non capivo più nulla; solo i suoi baci.

Alla frontiera ci è andata bene perché il controllo è stato quasi nullo, e nei bagni i poliziotti non ci hanno messo piede. Così poi abbiamo corso verso il Lussemburgo e, anche se Altin continuava a stare nascosto, la paura peggiore era passata. Ogni tanto andavo a vederlo, gli ho portato un maglione dei miei, che avevo messo dentro lo zaino la sera prima. E due mele. Non so come ha fatto a mangiare, in quel bagno schifoso. A ogni ora di viaggio quel bagno diventava sempre più schifoso; e Altin sempre più contento.

Siamo arrivati in Lussemburgo e io ero pronta davanti al bagno per aprirgli di nuovo la botola, due tizi si sono piazzati proprio lì davanti, e uno dopo un po’ è entrato e non usciva più; e intanto il treno entrava in stazione e tutti si preparavano a scendere e poi sarebbero arrivati gli addetti alle pulizie e Altin l’avrebbero scoperto, tutto raggomitolato nel buio della botola; la paura la respiravo, la sentivo nella bocca, nelle gambe, dappertutto. Invece, colpo di fortuna: il tizio è uscito, i due se ne sono andati, non c’era fila davanti alla porta del treno vicina al bagno. Ho svitato la botola, Altin mi ha abbracciato. È scivolato fuori. È sceso dal treno. Si è fermato in fondo al binario.

Io sono scesa con una calma finta, camminavo come sui vetri, di nuovo. Lui era in fondo al binario e faceva finta di aspettarmi. Io ho detto “Sei stato gentile a venirmi a prendere”; così se qualcuno ci sentiva, non davamo nell’occhio. Ci siamo baciati.

Io pensavo che tutto cominciasse. Invece è finito.

Altin non l’ho più visto. Tutto l’amore svanito. Mi ricordo la sua schiena in via Potin Parlus, con i tigli e le macchine in fila e i tavolini allegri dei caffè. E Altin diceva: “Ecco, quello è mio zio” e attraversava la strada. E spariva. Eravamo d’accordo che io sarei tornata indietro e lui avrebbe telefonato e scritto e poi io sarei tornata a trovarlo, a maggio. “Come i fiori che sbocciano” aveva detto Altin. Lui è molto romantico.

Invece non mi ha mai dato il suo indirizzo, mai dato un modo per ritrovarlo. Ha chiamato un paio di volte, dalla voce mi sembrava ubriaco.

Poi basta.

Sono passati 5 anni e io adesso vivo da sola, ho un altro numero di telefono, invece la Milli è rimasta con i nostri genitori, perché è più giovane. E allora, ogni tanto, anche se ho deciso che non lo devo più fare, mi succede che suono il campanello di casa dei miei e domando se ha telefonato qualcuno. Sto con Mario, sono anche innamorata, io mi butto sempre tutta in ogni cosa che faccio. Ma Altin resta infilato nel cuore come un pugnale. Come un coltello.

E mi fa morire.

Pina Corsetti

Pina Corsetti