AVVOCATO

Giovani avvocati contro vecchi tromboni rimbecilliti, pensava guardando l’avversario, un vecchio legale che evidentemente non doveva poi averne viste molte se alla sua età si trovava ancora a difendere in pretura, per una piccola causa del genere, vestito in quel modo, con le borse sulle ginocchia dei pantaloni e la borsa di cuoio che cadeva a pezzi, senza più una sua forma propria, chissà quante piccole carte inutili aveva contenuto, accompagnandolo per tutti quegli anni, antica.

Non se ne vedevano molti di quella età in giro da quelle parti, erano posti da giovani lottatori e se per qualcuno era diventato un cimitero per elefanti era per l’interessato un brutto segno.

Non più molti capelli in testa, ma spettinati, con un lungo ricciolo di riporto che ciondolava dalla parte sbagliata, di lato, baffi quasi bianchi con una strana protuberanza di carne vicino, una accentuata pancetta, né alto, né basso, per la sua età.

Possibile che non avesse neanche un vestito da processo, non aveva visto da tempo un collega che si vestisse con tanta poca cura dell’apparenza, forse non era sposato, un uomo solo che non badava all’abbigliamento.

Conosceva tutti i pezzi da quattro soldi quello, lì dentro – rifletteva continuando a sbirciarlo senza curiosità, nell’attesa dell’inizio dell’udienza, mentre lo sentiva chiacchierare – che sciocchezze diceva – con l’usciere e con il vecchio cancelliere, anche questo un altro bel pezzo da museo, e sordo anche, a giudicare dal tono elevato che l’altro continuava a mantenere.

Ascoltava senza volere quella voce rimbombante nell’ambiente ancora silenzioso, quei due non riuscivano ad interromperlo, annuivano, e lui continuava con lo stesso tono, sempre lo stesso, senza una pausa mentre i minuti si accumulavano e non cominciava ancora nulla di quel piccolo processino e di tutti quelli che dopo dovevano seguire la stessa mattina, rapidi.

Quella era la voce di tutti quei vecchi avvocati, era la loro unica arma, più che la conoscenza dei codici, insieme a quel tessuto di contatti che negli anni andavano tessendo all’intorno, sempre più ramificati in ogni utile direzione; ma quello sembrava essersi fermato ai rami più bassi.

Sembrava un vecchio ed esperto cantante che stesse facendo le prove, capiva che stava scaldandola quella voce, cominciava ad andare su toni diversi, bassi, sempre più profondi e le frasi diventavano tutte differenti, si amalgamavano le une con le altre, si succedevano agevolmente, rapide ma scandite con precisione.

Non lo conosceva, non era uno di quelli che bazzicavano per il tribunale quotidianamente, tutti loro li aveva nella memoria, così come nello schedario dello studio, proprio dietro la scrivania, dove di ognuno aveva catalogato i punti deboli, fin da quando era un praticante alle prime giornate postuniversitarie, deciso a non perdere tempo per arrivare il più rapidamente possibile nelle prime posizioni.

Il giudice continuava a farsi attendere, non spuntava la sua toga nera, quei pochi dietro lo steccato ciondolavano in attesa.

Mio papà, Vincenzo Pizzo, era avvocato fin dagli anni cinquanta dello scorso secolo, per questo, con tutta probabilità, ho studiato giurisprudenza per poi evitare con cura ogni possibilità di contatto professionale. Cervello buono, etica specchiata, nessuna abilità concreta nella gestione della professione, pure in presenza di buona conoscenza e doti naturali – che voce, nello svolgimento di discorsi incantatori, appena noiosi, ma sempre di peso.

Il report del giovane avvocato di cui sopra non lo inquadra con precisione, delinea appena alcune apparenze, il genitore avrebbe poi vinto quel piccolo scontro, come altri di simili dimensioni, per poi abbandonare la professione non appena possibile il pensionamento. Ha avuto una delle pensioni da avvocato più basse d’Italia e senza alcuna evasione fiscale.

Avrebbe poi vissuto altri trent’anni, questa forse la fase più armoniosa della vita, le sue peculiarità potevano manifestarsi libere, non ci si attendeva nulla di nuovo da lui, era così come era sempre stato, i limiti ora erano edulcorati dall’età, procedeva in salute, sereno, sentenzioso ma leggero, come sempre, per me non a lungo tollerabile nel contatto a lungo termine quotidiano – e me ne dispiacevo di più ogni anno che passava

Questo il mio report, a propria volta molto parziale, ma in questo modo almeno rimane qualche frammento, probabilmente in parte distorto, comunque presente.

Chi ci ha visti nei suoi ultimi giorni – un ricovero di qualche centinaio di ore ed una veloce fine – ci ha detto – era il penultimo giorno – che non aveva mai visto un padre ed un figlio che stavano così bene insieme. Ce lo diceva un malato, disteso nel letto, sicuramente un po’ ottuso dai farmaci, ne abbiamo sorriso entrambi, felici.

Paolo Pizzo